In questo Rapporto si insiste molto su un criterio metodologico che dovrebbe informare
l’impostazione degli interventi sull’innovazione logistica per il territorio: più che al campo della
politica dei trasporti, la logistica dovrebbe rientrare nell’ambito della politica industriale per
l’innovazione, e ciò comporta lo spostamento di attenzione dai tradizionali problemi
infrastrutturali a quelli organizzativi e di mercato. A questa scelta metodologica non deve essere
attribuito un valore assoluto.
E’ fin troppo intuitivo riconoscere che in assenza, o anche in
carenza, di adeguate infrastrutture fisiche per la mobilità e i trasporti, nessuna innovazione
logistica ha probabilità di successo. Ciò che si intende sostenere è, tuttavia, che esistono
margini di azione nel campo della logistica che possono in una certa misura venire affrontati in
modo autonomo dai problemi di dotazione infrastrutturale.
Ad esempio, quando si parla di
subalternità logistica delle imprese manifatturiere italiane (giudizio espresso anche nell’ultimo
Piano Generale dei Trasporti) non ci si riferisce tanto alla carenza di infrastrutture logistiche e
intermodali sul territorio nazionale, quanto alla prevalenza di clausole di consegna (FOB per
l’export e CIF per l’import) che di fatto delegano ai buyers stranieri la responsabilità di
organizzare la catena logistica. Con tutto ciò che ne consegue in termini di appropriazione del
business e crescita delle competenze.
D’altro canto, bisogna considerare che, mediamente, i costi della logistica industriale sono solo
per meno di un terzo attribuibili alle attività di trasporto, mentre i rimanenti due terzi si riferiscono
a funzioni di magazzinaggio, amministrazione, servizi, handling, finissaggio, informazione, ecc.,
sulle quali ci siamo soffermati nel precedente parag. 1.4. Come si può vedere dalla tabella qui
allegata, per alcuni settori rilevanti per l’economia mantovana – come l’alimentare, i prodotti
agricoli, le attività commerciali – e ancora più per le industrie a maggior tasso di innovazione –
come l’elettronica o la farmaceutica – il rapporto fra servizi logistici e trasporto risulta ancora più
a favore dei primi.
Un altro aspetto importante è inoltre oggi definito dalla natura immateriale delle infrastrutture
strategiche per la logistica, in particolare dalle piattaforme di scambio delle informazioni (per la
gestione congiunta degli approvvigionamenti, per l’ottimizzazione delle scorte e dei carichi, per
la borsa dei noli, per il controllo a distanza delle merci, per la trasmissione dei documenti, ecc.)
basate su sistemi di comunicazione digitale e sviluppate su protocolli standard o dagli applicativi
del commercio elettronico. E’ questo un tema sul quale avremo modo di tornare già nel
prossimo capitolo e sul quale si fornisce, alla fine di questo rapporto, un ampio resoconto
attraverso slides.
In ogni caso, non si intende affatto sottovalutare la questione delle infrastrutture materiali della
logistica, soprattutto quelle di "nodo", riferibili alle attività di stoccaggio, consolidamento dei
carichi e interscambio modale. Si tratta senza dubbio di infrastrutture fondamentali, che
qualificano la dotazione di un territorio e che offrono opportunità di insediamento per le imprese
di servizi logistici e di trasporto.
Ma proprio questo è il punto: infrastrutture come i centri merci e
gli interporti non devono costituire un obiettivo in sé quanto piuttosto strumenti di una politica
industriale per il miglioramento dei servizi logistici. Evitando il paradosso nel quale troppo
spesso i sistemi locali italiani si sono trovati: quello di creare infrastrutture senza imprese, e
lasciare le imprese senza infrastrutture.
In questa ricerca, per vincoli di tempo ma anche per scelta metodologica, si è evitato di
analizzare a fondo l’esperienza dell’Interporto di Mantova. Tuttavia, dai documenti messi a
disposizione si capisce che tale esperienza è nata su presupposti non molto diversi da quelli
che hanno accompagnato la realizzazione di altri interporti nelle province italiane. L’idea alla
base di tali iniziative era che l’intermodalità dovesse rappresentare uno strumento per dare
maggiore efficienza al sistema del trasporto merci, e che per sviluppare una politica per
l’intermodalità fosse necessario realizzare su ogni territorio provinciale infrastrutture intermodali.
In realtà, questo sillogismo è solo in apparenza lineare: non tutta la domanda di trasporto può
trovare risposta nell’intermodalità ma, soprattutto, non è affatto detto che l’intermodalità possa
svilupparsi attraverso infrastrutture di scala provinciale.
E, in effetti, gli interporti davvero
funzionanti in Italia sono rimasti molto pochi, per una ragione tecnica che si è presto rivelata
strategica: l’intermodalità ha bisogno di elevate economie di scala, poiché l’efficienza del
servizio dipende dalla possibilità di formare treni blocco frequenti e su direttrici estese, obiettivo
questo raggiungibile solo concentrando i flussi su precisi e ben individuati nodi di traffico.
Quali sono questi nodi di interscambio che possono interessare le imprese localizzate nell’area
mantovana?
Ad un raggio di qualche decina di chilometri se ne individuano almeno quattro:
Verona, Bologna, Parma e Padova. Senza aggiungere quello di Milano, che rimane per
importanza uno dei principali hub logistici europei.
Nei quattro interporti citati, tutti a gestione mista pubblico-privata, sono disponibili nel
complesso quasi 10 milioni di mq di area per i terminal, ai quali si possono aggiungere altri
quattro milioni di mq per future espansioni (soprattutto a Verona e Bologna). Le aree coperte
per magazzini ammontano, sempre considerando complessivamente i quattro interporti, ad un
milione di mq.
Parma svolge in realtà più una funzione di centro logistico che di vero e proprio interporto
(nonostante due binari ferroviari già realizzati): qui le aree a disposizione delle imprese per
attività logistiche superano i due milioni di mq., con una movimentazione di 120mila veicoli
commerciali all’anno e quasi 40mila casse mobili. Verona, Bologna e Padova effettuano invece
anche una consistente funzione intermodale, con una specializzazione suddivisa sia in termini
di unità di carico, sia per le direttrici geografiche servite. Bologna si è specializzata nei
collegamenti con il Centro-sud Italia, Padova nei collegamenti con i porti del Tirreno e verso
l’Est Europa, Verona per il Nord Europa. Bologna e, soprattutto, Padova sono specializzate
nella movimentazione dei containers (la prima con 700mila unità trattate all’anno, la seconda
con quasi un milione e mezzo, che ne fa uno dei principali inland terminal d’Europa), Verona
nelle casse mobili (230mila all’anno) e nei semirimorchi (90mila).
Questa breve e incompleta rassegna sull’offerta infrastrutturale e di servizi logistici e per
l’intermodalità nei quattro interporti vicini a Mantova ha lo scopo di far capire come al momento
non esista, in realtà, un problema quantitativo di dotazione infrastrutturale. Un impresa
manifatturiera localizzata sul territorio mantovano, e ancor più un operatore di logistica e
trasporti che a questa impresa voglia fornire i propri servizi, ha quindi a disposizione a pochi
chilometri un’offerta consistente di infrastrutture logistiche e intermodali di prim’ordine. E
siccome un’impresa non ragiona in termini di confini amministrativi o di semplice distanza
chilometrica ma di accessibilità a servizi misurabili in termini di costi e qualità complessivi, non è
affatto detto che la presenza in territorio mantovano di un Interporto ne faciliti l’utilizzo da parte
delle imprese locali. E’ questo un ragionamento che può sembrare banale ma che, in realtà,
non sempre è stato considerato nella programmazione delle infrastrutture logistiche.
Tuttavia, questo ragionamento non deve portare alla conclusione che una infrastruttura logistica
minore non possa avere un suo spazio di mercato.
E, d’altro canto, l’interporto di Mantova come
altri centri intermodali minori, pur non essendo ancora riusciti a sviluppare una vera e propria
funzione intermodale, hanno comunque visto crescere interessanti attività logistiche. Magari
diventando zone per l’insediamento di imprese di autotrasporto e di spedizione che, grazie alla
buona accessibilità alle reti autostradali e alla disponibilità di spazi operativi, hanno potuto
investire in nuove funzioni logistiche specializzate a valore aggiunto.
Per quanto riguarda
l’intermodalità è la specializzazione la chiave che può aprire interessanti prospettive di sviluppo.
Come a Trento, dove si è potuto contare sulla vicinanza con il confine austriaco per inaugurare
un efficiente servizio di combinato accompagnato (autostrada viaggiante) che a Verona
risultava più difficile organizzare.
A Mantova può senz’altro giocare un ruolo importante
l’intermodalità fluviale – sulla quale nessuno degli interporti vicini può direttamente contare – ma
sapendo che le merceologie trasportabili per vie d’acqua interne non sono in realtà numerose.
E che, comunque, la semplice gestione intermodale non giustificherebbe investimenti
consistenti da parte delle imprese se non accompagnata da attività logistiche a valore aggiunto.
In conclusione, sembra di poter affermare che l’Interporto di Mantova, così come è avvenuto
per altri interporti di dimensione minore, potrà sviluppare interessanti spazi di mercato se si sarà
in grado di assicurare almeno tre condizioni:
- una gestione imprenditoriale e non burocratica
delle infrastrutture, che favorisca l’insediamento di operatori logistici specializzati, che a partire
dall’offerta di servizi per il tessuto produttivo locale siano in grado, proprio in quanto
specializzati, di attirare una domanda di raggio più vasto;
- una divisione del lavoro e una
integrazione delle attività entro una rete estesa di infrastrutture e servizi per l’intermodalità, a
partire dai principali interporti dell’area padana che, come abbiamo visto, hanno già oggi un
consistente volume di traffici ai quali aggregare, con adeguati servizi di consolidamento, anche
la domanda proveniente dall’area mantovana, e ai quali offrire l’integrazione con le vie d’acqua;
- lo sviluppo di progetti innovativi a servizio dell’area urbana (city logistics) e delle filiere
produttive locali (district logistics), basati su strategie di diffusione delle tecnologie di rete e di
crescita della cultura logistica nelle imprese.
In questa prospettiva, l’Interporto potrebbe veder crescere il proprio ruolo come strumento di
una politica per l’innovazione logistica del territorio. Ma, per l’appunto, come uno degli
strumenti, non certo l’unico a cui affidare un compito che ha bisogno di altri attori e di altri
strumenti per essere effettivamente realizzata.