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CAPITOLO I
Progresso tecnico ed occupazione: sintesi dei contributi teorici
1.3 Dal breve periodo di Keynes alle teorie schumpeteriane dell'innovazione
Nella Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta (1936) John Maynard Keynes¹
non esaminò direttamente il problema degli investimenti volti all'introduzione delle nuove tecnologie.
Egli non afferrò il ruolo da esse svolto nell'incrementare l'efficienza marginale del capitale.
Questo stupisce specialmente perché sei anni prima nel Trattato della Moneta (1930) Keynes aveva accettato inequivocabilmente la
spiegazione data da Schumpeter sulle principali origini degli investimenti nelle società capitalistiche.
E' in questa opera che Keynes sostiene che "gli imprenditori sono indotti o dissuasi ad imbarcarsi nella produzione
di capitale fisso dalle aspettative sul profitto che ne deriverà."
Quel che meraviglia è che né Keynes, né i keynesiani abbiano dato seguito al riconoscimento del ruolo determinante
dell'innovazione tecnica.
Nella Teoria regredì ad una posizione in cui trascurava la tecnologia, la considerava come data, proprio
mentre presentava un concetto molto artificiale quale quello del declino secolare dell'efficienza marginale del capitale,
staccandolo completamente dai reali cambiamenti tecnici o dalla composizione dei capitali.
In conformità a tale affermazione,
per i keynesiani divenne indifferente quali fossero le nuove tecnologie e le industrie a più rapida crescita.
Da qui scaturì il punto principale dell'obiezione di Schumpeter².
Al contrario di Keynes e dei neoclassici, ma conformemente a quanto affermato da Marx, il progresso tecnologico è nel
pensiero di Schumpeter al centro delle dinamiche del nostro sistema economico. Mentre per i primi, la crescita si limita
ad accompagnare l'emergere di nuove industrie e tecnologie, per questo autore il sistema è trainato da tali innovazioni
e dalla loro diffusione.
La rilevanza dell'opera di Schumpeter consiste nell'aver proposto una teoria del mutamento economico nel tempo.
Partendo dai comportamenti di ogni produttore, innovatore o meno, egli elaborò una teoria dell'innovazione a livello di impresa.
Per innovazione l'economista intende più forme di cambiamento: l'introduzione di nuovi prodotti, l'innovazione dei processi
(cambiamenti nella tecnologia per produrre beni già commercializzati), l'apertura di nuovi mercati o di nuove fonti di
approvvigionamento, la taylorizzazione³ del lavoro, un impiego migliore delle materie prime od anche nuove forme di
organizzazione commerciale (Schumpeter, 1939). Per innovazione tecnologica Schumpeter fa riferimento direttamente al
mutamento nelle tecniche di produzione. Schumpeter ritiene l'innovazione il tratto distintivo della società capitalistica,
quello che lo differenzia da una situazione di "equilibrio stazionario".
Nel suo schema teorico, l'autore introduce ben quattro importanti ipotesi: nella prima, le innovazioni comportano la
costruzione di nuovi impianti e attrezzature e richiedono un notevole dispendio di tempo e denaro.
Nella seconda ipotesi, Schumpeter sostiene che prima di introdurre le innovazioni non esiste concretamente alcuna
risorsa inutilizzata dal processo produttivo.
La terza ipotesi è quella secondo cui le innovazioni sono incorporate in "nuove" imprese, che si pongono accanto
alle "vecchie", generando all'interno dell'industria una lotta di concorrenza, dovuta all'abbassamento
delle curve di costo totale unitario, dato proprio dal progresso tecnologico.
Più precisamente, sono le innovazioni che abbassano le curve dei costi medi e provocano la lotta tra le imprese e lo
sconvolgimento dell'esistente struttura industriale. In Capitalismo, socialismo e democrazia (1943) l'autore dice che
"la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo
organizzativo…condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità" (pag. 80).
Nella sua quarta ipotesi, Schumpeter sostiene che gli imprenditori siano degli "uomini nuovi"4 che realizzano concretamente
le innovazioni. Nella Teoria dello sviluppo economico (1912) egli definisce imprenditore chiunque "introduca una nuova combinazione".
Gli imprenditori non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una condizione durevole.
La loro identità è strettamente collegata all'agire innovativo e cessa quando tale forma di agire si esaurisce.
La capacità di innovare dell'imprenditore è remunerata dal profitto, che gli spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice.
Esso "è l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla produzione" (Schumpeter, 1912).
Con l'ipotesi degli "uomini nuovi" si spiega perché le innovazioni non vengano introdotte contemporaneamente da tutte le
imprese, ma lo siano solo da alcune (le "nuove" imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di imitazione,
si diffondano a tutta la struttura produttiva.
Ciò avviene perché innovare non è semplice, in quanto l'ambiente circostante pone una certa resistenza di fronte alle novità,
mentre accetta con benevolenza neutrale la ripetizione di atti consueti. Di qui, la genialità e la rilevanza del contributo
dell'imprenditore innovatore. In conclusione, Schumpeter pone l'imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di
sviluppo; essa è incarnata dalla figura dell'imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura sociale ad un ruolo subordinato
nel processo di evoluzione del sistema.
Poste le ipotesi, esaminiamo dunque la teoria del mutamento economico. Per costruire il nuovo impianto ed introdurre
moderni macchinari (che ordina alle imprese esistenti), l'imprenditore si fa prestare i fondi necessari dai capitalisti.
La via dell'innovazione è più semplice, altri imprenditori decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale.
Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione (salario nominale e tasso di interesse)
aumentano per l'incremento della domanda.
Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate
proprio al prezzo cui l'imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti. Le nuove imprese entrano in
funzione l'una dopo l'altra e incrementano la produzione totale dei beni di consumo, la quale era stata in precedenza
diminuita per produrre gli impianti ed i macchinari. Si ha così quello squilibrio che stimola il processo di riorganizzazione
di tutta l'industria: le imprese esistenti iniziano un doloroso processo di modernizzazione e di razionalizzazione.
Finché sorgono però nuove imprese, che riversano il loro flusso di spesa nel sistema, vengono compensati gli effetti
negativi dell'innovazione (ovvero la disoccupazione da ristrutturazione).
In conclusione, Schumpeter afferma che il mezzo principale di riassorbimento di questo tipo di disoccupazione è la
spesa dell'imprenditore, che si riduce man mano che i nuovi prodotti entrano nel mercato ed i rimborsi dei debiti
contratti inizialmente aumentano. Ciò porta ad una "zona di equilibrio" da cui ripartirà l'attività imprenditoriale.
Da tutta la teoria del mutamento economico, risulta chiaro come Schumpeter vedesse il processo innovativo come forza
squilibratrice del sistema economico, anziché come un tipo di trasformazione uniforme ed incessante.
Egli giustificò formalmente a tre livelli questa sua visione. Innanzi tutto, le innovazioni tendono a concentrarsi
quasi esclusivamente in alcuni settori chiave e nell'ambiente loro circostante. Ne risultano asimmetrie e disarmonie,
le quali causano problemi di aggiustamento strutturale tra i diversi settori di ciascuna economia in crescita.
Secondo poi, il processo di diffusione rappresenta il mezzo attraverso il quale le innovazioni generano le maggiori
sorgenti di investimento e di crescita del prodotto. Il suo andamento è intrinsecamente irregolare con caratteri di ciclicità.
Infatti, in genere il lancio di un nuovo prodotto è caratterizzato spesso da un avvio lento, ma di solito seguito da
una rapida crescita, dovuta ad un certo "effetto di trascinamento" sugli imitatori.
Infine, le aspettative di profitto cambiano durante il periodo di crescita, visto che il processo di imitazione erode
i margini di profitto degli innovatori. La saturazione del mercato fa ridurre la produzione, la redditività e la forza
di attrazione di altri investimenti.
Fondamentalmente, le innovazioni costituiscono l'elemento di trasformazione organica dell'industria.
Esse stravolgono incessantemente e dall'interno le strutture economiche distruggendo il vecchio e creando il nuovo.
L'innovazione genera maggior produzione sociale, la stessa somma totale di redditi nominali, un minor livello dei prezzi
(il mutamento economico è innescato dalla variazione dei prezzi, non da quella dei salari nominali).
E' evidente che i risultati di lungo periodo dello sforzo innovativo sono stati trasferiti sui consumatori sotto forma
di un incremento del reddito reale. Insomma, innovare ha un effetto netto positivo sul sistema economico in termini di
maggiore benessere. A questo proposito, in Capitalismo, Socialismo, Democrazia afferma che:
"Il processo capitalistico, ...in virtù del suo stesso meccanismo, determina un progressivo aumento del livello di vita
delle masse...comunque" (Schumpeter, 1943).
Schumpeter mise in evidenza il fatto che il progresso tecnico consista nella creazione di nuovi prodotti ed industrie,
cioè in ciò che egli definì propriamente "distruzione creatrice". Essa elimina posti di lavoro nelle vecchie industrie
e ne crea nelle nuove. "Questo meccanismo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, quello in cui
il capitalismo consiste" (Schumpeter, 1977, pag. 79).
Per Schumpeter, il processo di mutamento economico del sistema consiste nella reiterazione sistematica di due fasi di
ragguardevole peso: la prima, la fase di prosperità, vede l'allontanamento da una posizione di equilibrio per la sollecitazione
dell'attività innovatrice dell'imprenditore, mentre la seconda, che è conosciuta come fase di recessione, consta
nell'avvicinamento del sistema ad un'altra posizione di equilibrio. Entrambi gli stadi sono frutto di due tendenze
contrapposte e connaturate al capitalismo, che sono la lotta di concorrenza e la concorrenza perfetta.
Nella prima fase, la concorrenza, generata dall'agire innovativo, squilibra il sistema e genera i profitti, producendo
una fase di prosperità ciclica, caratterizzata a livello occupazionale quasi dalla piena occupazione.
Invece, nella seconda fase, la concorrenza è perfetta ed è fondata sull'agire razionale di tipo imitativo.
Essa apre una fase di staticizzazione, che tende a riportare il sistema verso l'equilibrio stazionario, mediante
la perequazione dei profitti ed il loro progressivo azzeramento.
In questa seconda fase, pur se in perfetta concorrenza,
pur se all'inizio del processo di mutamento economico tutte le risorse produttive erano utilizzate, vi è disoccupazione.
Un simile fenomeno di squilibrio del mercato del lavoro è esternato da Schumpeter in tal modo: "La nostra impresa, quasi
necessariamente si trova in posizione imperfetta, anche se il sistema per gli altri aspetti è perfettamente
concorrenziale" (Schumpeter, 1939, pag. 135).
Egli afferma che il comportamento dei soggetti economici è
contraddistinto da incertezza anche in regime di concorrenza perfetta, dal momento che la realtà cambia
incessantemente e questo costituisce un elemento interno di indeterminatezza. Conseguenza diretta di ciò è che
paradossalmente il sistema è più vicino all'equilibrio, laddove esso è fortemente squilibrato dagli effetti del progresso
tecnologico, piuttosto che nella fase di depressione, quando vi sono concorrenza perfetta e disoccupazione.
Chiaramente, Schumpeter attribuì l'emergere della disoccupazione alle trasformazioni tecnologiche.
Tuttavia, poiché le invenzioni rilevanti avvengono ad intervalli ciclici, anche le fasi di ascesa degli
investimenti avverranno a intervalli di tempo periodici: ne risultano fluttuazioni cicliche dell'andamento
dello sviluppo economico e, quindi, dell'occupazione "ciclica". A questo punto risulta chiaro che, per Schumpeter,
la disoccupazione ciclica e quella tecnologica coincidano.
Precisamente a questo riguardo, egli poté sostenere con autorevolezza: "La disoccupazione tecnologica..., collegandosi...con
l'innovazione, è per sua natura ciclica. Nelle nostre analisi storiche, ...i periodi prolungati di disoccupazione sopra
la media coincidono con i periodi in cui i risultati delle invenzioni si diffondono nel sistema…come negli anni venti
ed ottanta del diciannovesimo secolo" (Schumpeter, 1939)5.
Schumpeter si riferisce a quegli anni, poiché guardava il fenomeno occupazionale con riferimento a lunghi cicli
(di mezzo secolo), che egli cita come " cicli di Kondrat'ev6" .
Schumpeter li ricollega col cambiamento tecnico, visto che il processo di diffusione di ogni nuova importante tecnologia
richiede addirittura alcuni decenni per realizzarsi.
Secondo Schumpeter, i cicli lunghi erano un succedersi di trasformazioni tecnologiche7 del sistema economico, che
necessitavano di quel profondo cambiamento strutturale che era dato dalla distruzione creatrice, tramite quelle che
egli definisce "successive rivoluzioni industriali".
La diffusione delle nuove tecnologie potrebbe spiegare le onde lunghe dello sviluppo economico, se tali innovazioni
avessero un impatto sconvolgente sull'intero sistema.
Kondrat'ev suggerì che dovessero essere imponenti e richiedere
copiosi tempi di diffusione (come l'elettricità o la ferrovia) per poter trasmettere all'economia una spinta verso l'alto.
Naturalmente, oltre ai loro effetti diretti, le innovazioni influenzerebbero le aspettative e le opportunità di quasi tutti i settori.
Infine, la questione che Schumpeter si pone è se la politica economica possa risolvere i problemi occupazionali del sistema.
Egli ritiene che la disoccupazione ciclica sia un elemento costitutivo ineliminabile del processo di sviluppo e che,
quindi, possa soltanto essere considerata come un costo sociale di cui l'intera società debba semmai farsi carico.
Un elevato tasso di disoccupazione segue le fasi di prosperità nei periodi di adattamento, pertanto è sostanzialmente
un evento passeggero. Comunque, temporanea o permanente, la disoccupazione è vissuta come un flagello in ogni caso.
La gravità del fenomeno è data dall'impossibilità di provvedere adeguatamente ai disoccupati, senza danneggiare le premesse
di un ulteriore sviluppo economico.
Le soluzioni proposte da Schumpeter al problema sono a favore di facilitazioni della mobilità professionale e
territoriale (la quale, se assente, può generare disoccupazione, almeno nel breve periodo), e di un piano di intervento a
sostegno del popolo dei senza lavoro, attraverso un uso adeguato delle risorse eccedenti che lo sviluppo capitalistico libera.
Secondo quanto messo in luce nelle varie opere schumpeteriane, si andava via via affermando la convinzione che le
trasformazioni legate alle nuove tecnologie, generando un incremento della produttività del lavoro, tendevano a ridurre
la quantità di lavoro necessaria a produrre un'unità di output.
Gregory, in un articolo del 1930, sostenne altresì che le
"imperfezioni" del mercato e le condizioni tecnologiche determinassero una certa quantità di disoccupazione permanente.
Perciò, nell'analisi della disoccupazione tecnologica, si aprì, accanto alla tradizionale ipotesi della compensazione,
una nuova strada che contemplava l'idea della disoccupazione strutturale.
Emil Lederer8 (1931) sviluppò le idee di Schumpeter, mostrando la ferma volontà di chiudere con la teoria della compensazione,
ritenuta di un certo rilievo soltanto in un'ottica statica, per affrontare un'analisi dinamica della relazione intercorrente
tra progresso tecnico e occupazione.
Egli approfondì particolarmente il concetto di disoccupazione strutturale per i suoi forti legami con l'andamento del
progresso tecnico, ponendo l'accento specificatamente sulla distinzione tra imprese statiche ed imprese innovative.
Le ondate di progresso tecnico determinano effetti diversi su di esse: nelle imprese statiche, si ha un rallentamento
della crescita della produzione, dell'occupazione e del capitale, contemporaneamente nelle imprese innovative
(che sostituiscono capitale a lavoro), si riscontra una riduzione dell'occupazione: è per questo che nel sistema
produttivo si crea disoccupazione (Palmerio, 1987).
A chiudere idealmente il dibattito degli anni trenta sulla disoccupazione tecnologica fu Hansen9 nel 1932.
Egli ribadì nel contesto della teoria neoclassica, centrata sulla sostituibilità dei fattori produttivi e
sull'importanza dei meccanismi di mercato, che "le innovazioni tecnologiche disturbano il corretto meccanismo
di determinazione dei prezzi dei fattori di produzione. ...Un sistema flessibile tra salario e tassi di interesse
ed un aumento dei nuovi investimenti sono gli strumenti principali attraverso cui il lavoro, spiazzato dalle innovazioni
tecnologiche, è...riassorbito" (Hansen, 1932, pp. 27-29).
Posto in tale ottica, il problema della disoccupazione tecnologica non ha più alcun senso: essa è sostituita da un
concetto di disoccupazione frizionale. Infatti, Hansen concede molto all'interferenza di impedimenti di natura
istituzionale ed al malfunzionamento dei mercati.
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